Adesso che non è più la prima volta che la mia primogenita Alice (classe ’96) fa le valige per quasi 11 lunghissimi mesi, posso confessarlo. L’anno scorso, quando è partita per Amsterdam, dove ha deciso di fare l’università, sono crollata. Ma come? Proprio io? Che ho iniziato a mandarla ai campus estivi a cinque anni? Che ho fatto il mio quarto anno di scuola all’estero? Che terminate le superiori ho lasciato la città e la famiglia e me ne sono venuta a Milano? Io che della forza e autonomia femminile ho fatto un punto cardine dell’educazione? Sì, proprio io.
Generazione Schengen e Helicopter mom
Dopo aver sostenuto Alice in tutto il percorso che l’avrebbe poi portata fin lì (pulizie della lurida stanzetta del pensionato universitario comprese) improvvisamente mi sono sentita mutilata e persa. «Are you a helicopter mom?». Con la delicatezza di un elefante, Aggy – olandese doc sita ad Amsterdam alla quale mi ero rivolta affinché “le desse un occhio” – mi aveva freddata con un’immagine che non avevo mai pensato mi corrispondesse. Che avesse ragione? Sono una madre sempre pronta al salvataggio? Lo scatolone traboccante di pummarola, parmigiano e prosciutto crudo, qualche sospetto lo poteva effettivamente sollevare.
«Da casa nostra partono regolarmente pacchi di cibo» mi rassicura Assunta Sarlo, giornalista, anima del settimanale online Cultweek, fondatrice dell’associazione per i diritti femminili “Usciamo dal silenzio” , mamma di Costanza, ormai in pianta stabile a Londra dove sta facendo il dottorato presso il King’s College. «L’avevo sostenuta con molto entusiasmo nella sua decisione di studiare all’estero, ma mi ero concentrata sugli aspetti organizzativi. Non avevo tenuto conto delle implicazioni emotive. E, inaspettatamente, oggi mi ritrovo a dirle ciò che mia madre diceva a me: copriti, stai attenta, mangia…». Nella storia del nostro Paese, siamo la prima generazione di madri che sperimenta questa apertura sul mondo. I nostri figli sono nati dopo il crollo del muro di Berlino, sono la “generazione Schengen” e il loro orizzonte non è nazionale, ma come minimo europeo.
Un equilibrio da ritrovare
Estrapolare i numeri dei ragazzi che vanno all’estero a studiare non è facile. Abbiamo i dati della European Commission relativi a Erasmus (dai 18.364 nell’anno 2007/08 ai 26.331 nel 2013/14) e i numeri elaborati da Ipsos per Fondazione Intercultura che riguardano gli studenti italiani (tra 16 e 18 anni) all’estero per un programma scolastico da un anno a tre mesi (più che raddoppiati negli ultimi 5 anni: dal 2009 al 2014 la crescita complessiva è stata del 109%).
«È un fenomeno sottostimato» dice Alessandro Rosina, professore di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, che sta lavorando assieme ad Assunta Sarlo proprio su questo tema. «Si può però affermare che la propensione dei giovani ad andare all’estero è in netta crescita». Ma ciò che più salta agli occhi è la netta prevalenza femminile: le ragazze sono il 61% di coloro che partono con Erasmus. «Non deve stupire» prosegue Rosina. «Da un lato le ragazze stanno investendo molto nella loro formazione, dall’altro tra la popolazione giovanile del nostro Paese sono loro le più penalizzate in termini di opportunità».
E forse incidiamo anche noi, una generazione di madri che ha lavorato per la propria realizzazione professionale e sociale e che ha educato le proprie figlie in tal senso, no? «Nella decisione di Giulia (classe ’98) di passare il primo quadrimestre del suo quarto anno di liceo all’estero, ho pesato molto: glielo avevo proposto io!» ammette Alessandra Sala, classe ’58, psicologa e psicoterapeuta. «Non avevo però previsto che, una volta arrivata in Nuova Zelanda, avrebbe chiesto di fermarsi un anno, infrangendo così quanto avevamo concordato assieme. In quel momento ho percepito che lei stava diventando altro da me. E sono andata in crisi». Questo è uno dei temi con i quali i genitori, e in particolare le madri, devono confrontarsi. Lo conferma Roberta Bastita, psicologa che da anni si occupa, per il centro locale di Intercultura di Alessandria, della selezione dei candidati. «Anche se hanno sostenuto i figli, consapevoli che l’esperienza avrà per loro un importante valore formativo, le mamme sperimentano una sorta di perdita di identità che le costringe a ripensarsi».
Come non sentirsi sole
Le strategie possono essere le più diverse. «Mentre Irene era in Germania a fare il suo quarto anno di scuola superiore, ho ospitato un ragazzo cinese» racconta Renata Monsanti, classe ’61. «Dovendomi occupare di lui, non mi sono preoccupata troppo per lei! Peccato che da allora Irene non si sia più fermata».
Che la mobilità richiami mobilità lo confermano anche i dati AlmaLaurea-XVII Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati: il 16% di chi ha un diploma universitario dichiara di essere rimasto o tornato per motivi di lavoro nello stesso Paese estero dove ha compiuto un’esperienza di studio. «I ragazzi che rientrano da Erasmus, ci chiedono di partire di nuovo» spiega Agnese Cofler, capo settore affari internazionali dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. «È un’esperienza che cambia la vita, non solo perché acquisiscono importanti strumenti didattici, ma soprattutto perché affinano capacità di problem solving e creano reti di relazioni importanti sia a livello personale sia di investimento professionale». Che dire, quindi? Farsene una ragione. E recitare a mantra le parole del poeta Khalil Gibran: “Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani”.